John the Baptist was a martyr
Cento e più tatuaggi, ma non old school né tribali nell’accezione moderna.
Tatuaggi per definire la firma, per marchiarne la proprietà, per riconoscere all’infinito: i cento e più tatuaggi di Giuseppina, arrivata nel secolo scorso dal Sudan nella provincia vicentina. Giuseppina è sorridente e porge il suo sguardo fiero dalla foto gigante che si svela ai devoti e ai passanti che si affacciano in una porta vetrata del sestiere Dorsoduro, a Venezia.
Giuseppina non voleva più tornare in Africa per ricominciare una vita da schiava: ora è libera e lo è grazie al suo incontro con un diplomatico italiano che prese a lavorarla con sé. Lui l’ha portata via dalla sua terra natìa, che la richiese indietro come schiava a più riprese.
Ora non solo è libera ma è anche una santa: Santa Giuseppina Bakhita (Sudan,1869 — Schio, 8 febbraio 1947). Lo è dal 2000, per volere di Papa Giovanni Palo II.
Ma, al di fuori dalle chiese, chi parla di Santi nella contemporaneità, a parte Mick Jagger, che gli dedica il testo di un’intera canzone come Saint of me (1997), e che si sofferma sui dipinti a tema nei maggiori musei del mondo, tra cui gli Uffizi (nel 2017), prima di Chiara Ferragni?
Certo, i santi di oggi, a cercarli, non si trovano con le frecce trafitte e l’aureola.
Giuseppina, immersa nella reale quotidianità dei vicentini di cui imparò ogni singola parola, tanto da finire con l’esprimersi solo in dialetto veneto, ne è una prova. Nell’iconografia contemporanea il trait d’union tra i santi e l’odierno potrebbe essere, appunto il tatuaggio, spesso segno di qualche esperienza forte vissuta (non significa che tutti i tatuati saranno santi in futuro, ma forse, chissà, molti santi lo saranno).
Ma chi parla di tatuaggi nella contemporaneità al di fuori degli studi dei tatuatori?
In questo caso è molto più semplice, soprattutto se si tratta di grafica, arte e artisti, tra i quali gli italiani Fabio Viale e Paolo Buggiani prima di tutti. Ma se ne parla anche nei media. Sul Corriere della Sera del 29 marzo 2020, ad esempio, in piena pandemia, la parola tatuaggio compariva ben 4 volte.
A pagina 15, un articolo di Elvira Serra focalizzato sul lavoro di medici e personale sanitario riporta così le parole dell’ infermiera 34enne Daniela Turno, della terapia intensiva dell’Humanitas di Bergamo:«Quello che stiamo vivendo è come un tatuaggio, ci resterà per sempre».
Toni più leggeri a pagina 41: c’è un’intervista al danzatore ucraino Sergej Polunin, che scelse di tatuarsi il volto di Putin sul suo dorso.
In queste ultime settimane, si è parlato nuovamente di simboli incisi sulla pelle, con divise, scandali, indignazioni e richiami all’ordine: tutta un’altra storia, niente di sacro e imperituro.
PS: il titolo di questo post, “John the Baptist was a martyr”, è anche un verso del brano Saint of me dei The Rolling Stones