From the street where you live
Un po’ per caso e un po’ perché non avevo visto la precedente personale annunciata come una delle ultime, quella che si tenne al Musée d’art et d’histoire di Ginevra nella primavera del 2016, visitai la sua (purtroppo vera) ultima mostra, “Other”, nel dicembre di quello stesso anno, a Lubiana.
Sto parlando di di Ulay.
Sono stata fortunata perché a introdurre e raccontare (si parlò proprio in termini di aneddoti) le sue opere era lui in persona, nel Museum and Galleries of Ljubljana City Art Gallery di Lubiana, città dove Ulay viveva, dopo una vita trascorsa soprattutto nell’est Europa. Nato in Germania nel 1943, trascorse molti anni ad Amsterdam, dove conobbe anche quella che poi divenne per molto tempo la sua ex- compagna più famosa, l’artista Marina Abramovic, che, da qui in poi, come lui stesso usava fare, verrà nominata con le sue iniziali. Sia per l’unione con M.A., sia per circostanze storiche che fanno più che altro identificare gli anni Settanta con quelli della performance art, di cui Ulay fu un vero precursore, l’intero lavoro dell’artista viene genericamente classificato come performativo e body art.
Eppure a rileggere, rivedere e ripensare (e la mostra di Lubiana aiutò in questa focalizzazione) le opere di Ulay andavano ben oltre quel mettere sé stesso al centro dell’azione, caratteristica tipica dalla performance art.
L’unicità di Ulay è stata una capacità di sguardo che pochi altri artisti a lui coetanei hanno avuto e che non è certamente richiesta, ma che fa di sicuro la differenza quando è presente, cioè un’indole a porre naturale attenzione alla gente comune e ai più fragili, non solo e non soltanto sé stessi, come quasi sempre vuole l’arte performativa.
A proposito di “quando è presente”: the artis is present venne adottato come titolo di una mostra per la prima volta da Ulay in Olanda quando capì che per far accorrere più persone ai vernissage bisognava annunciare la presenza, appunto, dell’artista in galleria. Proprio in occasione di quella mostra*, al centro De Appel di Amsterdam (tutt’oggi snodo centrale di nuove sinergie dell’arte contemporanea mitteleuropea e internazionale) vennero fuori per la prima volta due caratteristiche importanti del lavoro di Ulay: la sperimentazione che usò in campo fotografico e la sensibilità nei confronti dei senzatetto. Per quanto riguarda la prima, Ulay lasciò la Germania per andare in Olanda nel ’68 con una macchina fotografica: bussò alla porta del quartier generale della Polaroid per mostrargli le sue foto e gli venne risposto di girare grandi città (Parigi, Roma, NY) per scattarne di altre. Ulay lo fece e si ritrovò quasi sempre a fotografare i senza fissa dimora e a proposito di essi, in uno dei suoi aneddoti ammise di “aver sempre avuto grande attrazione ed interesse e simpatia per gli emarginati, individui senza fissa dimora, o mentalmente squilibrati etc”. Ad ogni modo al suo rientro in Olanda quelle foto erano da lui per lo più considerate come private ma, quando gli chiesero di mostrare tutti gli scatti che aveva realizzato durante i suoi viaggi, poi lo invitarono ad esporre proprio le polaroid degli emarginati. Tema difficile per l’epoca, scomodo (ora non più?). Così venne fuori sull’invito della mostra “The artist is present”.
Ulay commentò l’ “insuccesso” di quella inaugurazione facendo riferimento ai commenti “schifati” di chi presenziò la mostra, non erano contenti di vedere i senza tetto nelle polaroid, proprio come non sono contenti neanche ora di vederli per le strade.
* Causa emergenza è chiuso l’archivio da cui potrò recuperare la data esatta
PS. Il titolo di questo post è anche un verso di “Murder Most Foul”, Dylan 2020