Dove va la performance? Sul Palatino, dopo Obama

Valentina Bernabei
4 min readJan 27, 2020

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Obama out

In “Dreams from My Father: A Story of Race and Inheritance”, il libro autobiografico che Barack Obama scrisse nel 1995, tra le tante cose, il 44° presidente USA racconta anche del suo viaggio in Europa.
Ne parla ricordando i sentimenti che provò per quel tour: un misto a rabbia e senso di scoperta del diverso: lui nero e giovane che incontra l’occidente bianco e vecchio.
Nel libro annota dei luoghi simbolo che ha visitato, da Londra a Roma, passando per Madrid.

Obama scrive del Tamigi e del suo té, di Piazza Mayor e delle sue ombre “De Chirico”, come lui stesso le ha definite: “I crossed the Plaza Mejor at high noon, with its De Chirico shadows and sparrows swirling across cobalt skies” scrive Barack.
Poi, si menziona il Palatino: “and watched night fall over the Palatine, waiting for the first stars to appear, listening to the wind and its whispers of mortality”.

Il Palatino (non il Colosseo), luogo che persino molti romani, ignorano sebbene sia, forse, proprio il cuore di Roma.
Sul Palatino, dal 24 giugno scorso e fino al 18 settembre 2016, è in corso la mostra “Par tibi, Roma, nihil” a cura di Raffaella Frascarelli.
Si tratta di un progetto espositivo allestito nell’area archeologica dei Fori Imperiali e colle Palatino, che vede dialogare alcune opere d’arte contemporanea della collezione Nomas Foundation con l’archeologia e la storia di Roma. La novità, in questo caso, è che il dialogo tra l’arte contemporanea e l’archeologia non è una frase fatta: riguardo al tema “storico e contemporaneo che si incontrano” abbiamo avuto già diversi esempi, riusciti e non. In questo caso, il connubio è vero, e lo è soprattutto nel momento in cui la curatrice della mostra invita anche alcuni artisti a realizzare delle performances per uno spazio importante, denso di storia e significati come è appunto il Palatino. Il primo a “performare”, in coincidenza con l’apertura della mostra, è stato Emiliano Maggi (Roma, 1977), artista che, senza alcuna rigidità, non si lascia intrappolare nei generi e spazia con fluidità dalla musica all’arte, confluendo appunto nella performance.
La potenza del lavoro di Maggi, più che spiegandola, si apprezza dal vivo.
Guardando le foto della sua performance, può venire in mente Senga Nengudi, artista già in mostra al Moma e altri luoghi di livello simile, che, a dispetto di quanto possa evocare il nome, non ha origini africane: è nata a Chicago, nel 1943. A mio avviso, nei loro lavori ci sono diverse analogie: oltre a una sintesi estetica che strizza l’occhio a forme ancestrali e primitive, entrambi sono arrivati a considerare il corpo e le sue meccaniche in maniera non tradizionale, ponendo l’attenzione sia all’istruzione che all’uso di materiali naturali.
La seconda performance al Palatino è stata quella di Sissi (Bologna, 1977): “Diario di un ventre scavato”. L’artista il 21 luglio era lì, “minuta” all’interno della grandezza dello stadio Palatino, dove con una farina ha disegnato una nuova identità e, tra quei confini impalpabili, si è poi mossa agile, con un megafono di grandi dimensioni tra le mani, ricordando che l’arte ancora serve ad esprimere urgenze.
Il terzo appuntamento con la performance al Palatino ha coinvolto Tomaso De Luca (Verona, 1988) che, attraverso “Kouros (A Dialogue With Someone Taller Than You)”, ha reso protagonista la scultura, forma centrale nel suo lavoro, qui messa a confronto -e contrasto- con le dimensioni architettoniche e organiche, in un cambiamento di scala inedito e straniante, innovativo.
Tutti e tre gli artisti, ciascuno a modo suo, hanno dato una diversa importanza al corpo: Emiliano lo ha “utilizzato” in maniera fine e quasi invisibile lavorando sulla percezione; Sissi lo ha studiato, approfondendo quella che, da anni, è la sua ricerca sull’anatomia umana, fino a teorizzare un’anatomia parallela che include anche le emozioni. Si è sottratto con tutto il suo corpo, infine, Tomaso de Luca. La sua performance, “delegata” a due persone chiamate a “recitare” la parte di due atleti durante un allenamento, ha fatto leva su un paradossale utilizzo della scultura, mettendo in scena di fatto, un “eserciziario” — come lo definisce De Luca stesso.
I due finti atleti si allenavano nello stadio Palatino tenendo in mano delle sculture (realizzate manualmente dall’artista) dalle forme totalmente decontestualizzate, che vanno dalla guancia all’orecchio, passando per ascelle e spina dorsale.
Una decostruzione che, attraverso una singolare messa in scena (l’allenamento con le sculture in mano) in realtà esprime concetti importanti come il fatto che la scultura -contemporanea- può avere forme diverse dall’oggetto grande, importante, imponente e può dirci molto anche ribaltando le dimensioni e l’estetica classica.
La scultura di De Luca è diventata performance giocando con la magnificenza assoluta della monumentalità, caratteristica che hanno con sé sia l’antichità in generale sia un luogo come il Palatino.

E si ritorna a Obama.

La sua sensibilità per l’arte merita un discorso a parte, e, in attesa che la storia ci consegni interpretazione del suo operato, leggendo anche tra le righe -e oltre- degli speech scritti da gosthwriter giovani e preparati, va forse riportata l’attenzione sul discorso di congedo che Obama tenne con i giornalisti esteri ad aprile 2016.

Obama Out” è passato alla storia per quel suo lasciar cadere il microfono a terra: un rumore/un suono per un gesto che aveva tutti i crismi di una performance. Incisivo, preciso, con ritmo e con un messaggio non didascalico da inviare a tutti. Potenza degna di un passaggio al Palatino, come gli artisti italiani che oggi sono perfomers per “Par tibi, Roma, nihil”.

Si ricorda che la mostra è visitabile tutta l’estate; il prossimo appuntamento con la perfomance è l’8 settembre con Meris Angioletti, informazioni qui.

Articolo pubblicato il 3 agosto 2016 su http://parole-darte-d.blogautore.repubblica.it/

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