Alcune nere, alcune bianche e alcune rosse
Tra le mostre del 2019 di cui conservare ricordo e traccia c’è la personale dell’artista tedesco Jörg Immendorff (1945–2007), curata da Francesco Bonami alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia.
L’esposizione, intitolata “Ichich, Ichihr, Ichwir / We All Have to Die”, realizzata con il supporto della Michael Werner Gallery, è stata un evento collaterale della 58esima Biennale Arte. Chi era a Venezia nel 1976 aveva già visto le opere di Immendorff alla Biennale di quell’anno, poi tra le sue mostre importanti c’è stata Documenta VII nel 1982 (J.I. fu anche nel ’72 a Documenta) e altre in giro nel mondo. L’aspetto interessante di questa mostra non retrospettiva (poco “pubblicizzata” in Italia; a Madrid, invece, per capire l’importanza dell’autore, una personale di Immendorff è attualmente in corso al Reina Sofia) è evidente nelle grandi tele esposte.
L’artista, che fu allievo di Joseph Beuys, si è posto al centro del suo lavoro pittorico, nel senso che compare dentro i suoi dipinti non tanto e non solo come autoritratto, né come selfie ante litteram, ma come propensione a vivere il proprio essere artista in una dimensione collettiva e comunitaria, calandosi in un momento storico da cui non ha mai escluso impegno politico e sociale. Così, se Immendorff nel 1980 realizzava con idropittura su tela un quadro di 250 x 200 centimetri dal titolo Fragen eines lesenden Malers (domande di un pittore che legge), nel 2004 con olio su tela realizzava Malbuch: Zeichnung spricht zum Bild (Libro da colorare: disegno parla dell’immagine). L’essere artista prima di tutto quindi, ma sempre prestando attenzione a quello che succedeva intorno: l’opera Mannesmann del 1976 non lascia ombre di dubbio: si parla di licenziamenti e, i colori, sono quelli forti, vividi, tipici di Immendorff quando usa la pittura come mezzo di analisi. La mostra è ormai chiusa ma, di tutt’altro genere nella stessa impareggiabile sede della Fondazione Querini (a cui si augura di non avere più alcuna conseguenza dall’acqua alta), c’è ora da non perdere l’esposizione “Venezia 1860–2019. Fotografie dall’Archivio Graziano Arici”.
La fotografia è al centro di altra mostra importante del 2019: Training Humans, all’Osservatorio della Fondazione Prada di Milano. In questo caso più che un artista ad essere protagonista è una ricerca, quella concepita da Kate Crawford, studiosa in ambito di intelligenza artificiale insieme con l’artista Trevor Paglen. Immagini on line, riconoscimenti, algoritmi, sorveglianza, streaming, volti, gesti, pop star: il flusso delle foto esposte è da giramento di testa e guardar fuori dalle vetrate in Galleria Vittorio Emanuele II può solo accentuare lo stupore. Si esce dalla mostra con mille quesiti in più: è centrale come mostra di chiusura di questo decennio, ancora visitabile fino a febbraio.
Molto più analogica e non per questo meno interessante è “Incidenze del vuoto”, la mostra personale di Giuseppe Penone (1947) curata da Carolyn Christov-Bakargiev al Complesso monumentale di San Francesco di Cuneo (con ingresso gratuito, visitabile fino al 2 febbraio). In questo caso ad essere degna di nota è la totale sintonia tra le sculture esposte e la sede espositiva che è una chiesa. Così tutta la navata centrale è occupata dall’opera Matrice, realizzata sezionando longitudinalmente in due parti un abete, ottenendo il negativo dell’albero, aggiungendo bronzo e stabilendo una connessione tra umano e vegetale che non ha uguali. Con questa opera dialoga Dafne ma quella che desta più attenzione è la monumentale Suture, nell’abside della chiesa. Importante promemoria di come l’Arte Povera sia dal 1968 ad oggi ancora esemplare per estetica e punto di osservazione e riflessione.